Moroloja
Da Fedra a Pasolini
Moroloja è un termine che si è conservato fino a pochissimo tempo fa, in alcune zone del Sud Italia, facendo riferimento al canto delle prefiche emesso davanti al defunto, un atto rituale e performativo al tempo stesso. La sua etimologia, così come la sua pratica, hanno origini risalenti alla Grecia classica: mòira (destino) e logos (discorso); letteralmente discorso sul destino.
Moroloja – Da Fedra a Pasolini è un lavoro che pone al centro il corpo e la voce, una danza continua nello spazio e nel tempo, come una carrellata ininterrotta di racconti, rimandi iconografici, movimenti che si sgretolano per rinascere in altro, senza lasciare il tempo di respirare. Una verità cruda e presente posta davanti agli occhi dello spettatore, che più che rispondere, crea nuove domande. Il punto di partenza della ricerca del seguente lavoro è la lettura di Morte e pianto rituale di Ernesto De Martino e il documentario Stendalì – Suonano ancora di Cecilia Mangini, la prima documentarista italiana.
Servendosi dell’atto rituale/performativo antico del planctus, e della figura della prefica, Moroloja è il tentativo di dare voce alla nostra contemporaneità: dalle questioni politiche, sociali e belliche dei popoli del Mediterraneo, alla lotta femminista d’emancipazione, alle questioni di identità di genere. La creazione scenica si presenta come una sorta di trilogia del pianto, un trittico d’altare dove ogni dipinto – pur avendo la sua identità e la sua storia – si lega indissolubilmente all’altro.
La narrazione è filtrata da tre figure appartenenti ad epoche e culture diverse (Fedra, la Vergine Madre e Pier Paolo Pasolini) e attingendo, di conseguenza, a generi letterari e artistici differenti (il teatro classico, la lauda medievale, la poesia contemporanea, gli affreschi, la scultura in terra cotta, le foto d’archivio, le registrazioni originali dei canti funebri, le sonorità del mondo arabo, la musica eletronica…).
La morte è il destino ultimo di ogni uomo e di ogni donna, l’unica consapevolezza che abbiamo per tutta la vita fin dalla nascita, eppure non siamo mai realmente pronti ad essa, il suo arrivo porta con sè sempre un senso di smarrimento. Ogni popolo, fin dalla notte dei tempi, ha pianto i propri defunti in maniera diversa e non c’è civilità che non rechi testimonianza di questa esigenza: canalizzare l’irrazionale rifiuto della gratuità del morire. Non si inizia con il planctus, ma con l’eterno interrogarsi su ciò che non si comprende. La morte ci mette davanti a una seconda presa di coscienza: la vita è un continuo punto interrogativo, morire è l’unica cosa certa, ma cosa questo significhi davvero non lo sapremo mai e non potremo mai raccontarlo.
La pratica rituale tenta di ottundere lo sgomento, il canto sguaiato, le urla tra le lacrime, il corp martoriato che si abbandona a una forma di danza è l’attaccamento alla vita che tenta di riportarci in uno stato di coscienza. La creazione delle azioni rituali sono artifici della mente umana, balsami per le ferite, inganni per la mente. Eppure in così tanta menzogna raccontiamo la verità dell’esistere: dare un senso alle cose che non possiamo conoscere nella totale interezza. Ecco perché l’atto rituale è il più antico atto performativo. Moroloja, cantare la morte è la cosa più antica del mondo e in quanto tale la più contemporanea di tutte.
Di e con
Mattia Carlucci e Riccardo Cananiello